lunedì 16 dicembre 2013

“Ma non possiamo trovare il modo di andare d'accordo tutti quanti?” di David Goff

Eduardo (uno dei partecipanti alla CB Training) ha tradotto e commentato questo interessante saggio di David Goff dal titolo “Ma non possiamo trovare il modo di andare d'accordo tutti quanti?” 

A seguire leggete quanto Eduardo scrive e traduce:
...
Io ho capito questo:
Le comunità tradizionali basano la loro coesione su affinità e somiglianze: stessa razza, tribù, lingua, religione, modo di sopravvivere e prosperare, visione del mondo, ecc. Sono dette infatti “comunità affini”.

Questo non è più possibile x noi oggigiorno. Siamo troppo diversi (basta guardare nel nostro gruppo!). I membri di una comunità tradizionale condividevano valori, principi, norme. Quali valori avremmo noi oggi? I miei? i tuoi?

Come fare allora, visto che sentiamo un profondo bisogno di 'sta dannata comunità?

È facile cadere nella tentazione di cercare di accomunare persone che si somiglino. Pensiamo: “Se tutti votiamo a sinistra, siamo vegani, crediamo nel reiki e facciamo il tifo per il Torino, allora sì che saremmo una comunità!”
(Scotty diceva: “Sì, vabbè, dipende cosa s'intende per comunità... Per me quella lì non è una autentica comunità.”)

La frase del titolo del saggio, “Ma non possiamo trovare il modo di andare tutti d'accordo?” la pronunciò Rodney King. È divenuto celebre per essere stato vittima, il 3 marzo 1991, di un violento pestaggio da parte di diversi agenti del Los Angeles Police Department (da cui era stato fermato per eccesso di velocità); la successiva assoluzione dei poliziotti coinvolti, fu la causa scatenante della grande sommossa a sfondo razziale scoppiata in città tra l'aprile e il maggio dell'anno successivo.

Tra l'altro il vecchio paradigma della comunità basata su ciò che ci accomuna più superficialmente – razza, religione, appartenenza politica, squadra del cuore, dieta, intolleranze, ecc. – è la premessa di conflitti, pestaggi, violenze, guerre ed stermini vari tra i gruppi.

In contesti simili, così eterogenei, visto che non ci sono le affinità, su cosa si può basare una comunità?
Su una base che invece di dar valore alle somiglianze, lo dia alla diversità e così possa integrare le molteplici realtà coesistenti. E perciò abbiamo bisogno di una comunità basatasull'esperienza palpabile di come noi esseri umani siamo, interconnessi a un livello piùprofondo di quello delle somiglianze o delle differenze.
Questa nuova comunità potrebbe essere descritta come l'esperienza condivisa dell'interconnessione, come una comunione sociale o come uno stato collettivo di coscienza.

La parte che segue la traduco.
Recentemente dei processi esperienziali sono emersi che sembrano generare questi stati di coscienza “unitiva” o “communitas” come la chiama l'antropologo Victor Turner.
Turner ha osservato che questi processi creavano uno “spazio rituale” che esisteva al margine del normale contesto culturale del gruppo. Coniò il termine “liminalità” (dal latino limen, soglia) per descrivere la caratteristica centrale di questo processo rituale. Secondo Turner la liminalità è “anti-strutturale” nel senso che in uno spazio rituale, le strutture culturali si sciolgono, così come tutte le forme d'identità riconducibili a uno status culturale. In questo spazio “in mezzo” alle consuete strutture sociali, i partecipanti al rito s'incontrano come esseri integri e uguali per esaminare le loro relazioni e la loro cultura.
Turner descrive anche la “zona liminale” come uno spazio vuoto. La communitas emerge quando gli individui si sottomettono insieme alla sciagura che accompagna il non avere più rango o ruolo, più nessuna struttura che attenui o medi il loro incontro con il dilemma umano. La communitas viene descritta come “sacra” e “santa”, e come suffusa di un potere rinnovatore e generativo. Queste osservazioni spingerò Turner ad affermare che la trasformazione sociale potrebbe essere attribuita a l'effetto della communitas sulle collettività.
I risultati di questa ricerca indicano che alcuni grandi gruppi sono in grado d'integrare la diversità e di sormontare le difficili tensioni che accompagnano la presenza di “altri”, che ciò è possibile quando il gruppo vive insieme l'esperienza della vulnerabilità umana e che questo fa emergere uno stato collettivo di coscienza. Dimostrano che gruppi numerosi possono generare esperienze in cui riconosciamo la nostra interrelazione perché diventa palpabile, e confermano la nostra fondamentale interdipendenza sociale ed ecologica. Allo stesso tempo questo studio rivela come esperienze trans-personali di un sentimento allargato di sé possano capitare a un livello che si trova aldilà dell'individuo.
Questi risultati hanno delle importanti ricadute per la psicologia e per la pratica della psicoterapia. Stabilendo che dei gruppi numerosi sono in grado di affrontare le tensioni che creano e mantengono le problematiche culturali, si apre la via a una nuova psicologia – una psicologia dell'interdipendenza. Questa psicologia, che poggia sull'esperienza diretta della fondamentale interconnessione della vita, riconosce che gli esseri umani soffrono in una cultura che nega l'interconnessione. Questa sofferenza offre informazioni importanti che riguardano i processi culturali che devono essere trasformati.
Consapevole che gruppi come questi rappresentano un microcosmo della cultura in generale, questa psicologia nascente si occupa delle sofferenze derivate dalle tensioni culturali. Esplora ed esamina i fattori psicologici e culturali, le dinamiche che creano il razzismo, la sfiducia etnica, il fenomeno dei sensatetto, e il nostro rapporto abusivo con l'ambiente. In quanto psicologia trans-personale, assiste i collettivi con una serie di passi evolutivi, mentre insegna agli individui come contribuire a questa transizione. In questo modo questa psicologia tratta le persone e la cultura allo stesso tempo.
Questa nuova prospettiva psicologica scaturisce da diverse fonti. Alcuni professionisti indipendenti stanno sviluppando nuovi modelli, tecniche, ed esercitazioni, che riguardano la nostra capacità di armonizzare con le persone. Lo psichiatra britannico Patrick de Mare chiama gli effetti benefici che i processi tematici generano, “socioterapia.” De Mare ha osservato che i gruppi scoprono le dinamiche sottostanti alle strutture culturali grazie al “dialogo”, una forma di libera associazione collettiva. Questo metodo rende consapevole delle premesse fondamentali che danno forma all'interagire nel gruppo. Rende esplicito la base ideologica dei sottogruppi e delle strutture culturali che ci separano, dividono e creano i conflitti.
Il fisico David Bohm, famoso per la sua teoria di un universo olografico, ha sviluppato in venti anni un suo esercizio di dialogo di gruppo. Considerando questo dialogo un “trasformatore di cultura”, Bohm lo descrive come un metodo per far sì che il gruppo raggiunga la “presenza mentale di gruppo”. Con la pratica il gruppo realizza un senso di amicizia impersonale e la coscienza di gruppo. A questo livello è possibile esaminare le premesse culturali e osservare gli effetti che questi pensieri collettivi producono. Bohm e De Mare insistono entrambi che tanto l'individuo come la società possono essere umanizzati allo stesso tempo con l'uso del dialogo.
Arnoll Mindell, fondatore del Global Process Institute, ha sviluppato una forma di psicoterapia di processo, che lui utilizza quando lavora con gruppi che possono essere diversi centinaia di persone. Mindell affronta conflitti culturali come tensioni etniche o razziali attraverso processi pensati per rendere l'incosciente collettivo più cosciente. Per Mindell ogni gruppo genera un “campo” d'informazioni che impatta sul comportamento del gruppo e ogni gruppo fa parte di questi campi culturali. Rendendoci coscienti dei loro contenuti e lavorando con i conflitti che ne sono inerenti, il Lavoro di processo globale raffigura la “democrazia profonda”, una forma più inclusiva di partecipare alla nostra essenziale interrelazionalità.
L'impresa è sempre più vista come una “comunità che impara”, in cui si possono praticare i processi collettivi che beneficiano alla crescita dei partecipanti individuali, dell'organizzazione e della cultura in generale. Il clima sta cambiando nelle aziende ed è diventato imperativo adattarsi velocemente e efficacemente. Questa esigenza di flessibilità e capacità di reagire ha avviato metodi innovativi di gestire i processi collettivi. Esperti di gestione e organizzazione come il prof. Peter Senge, di MIT, stanno sperimentando con tecniche che sottolineano l'importanza del pensiero di sistema, del dialogo, della visione condivisa e della partecipazione totale.
Queste nuove pratiche, nell'allargare il contesto e così poter focalizzare le dinamiche culturali, offrono una risposta opportuna alla preoccupazione di chi era critico della psicoterapia per la sua scarsa effettività nel campo del cambiamento sociale. Questa preoccupazione si basa sull'importanza data dalla pratica psicoterapeutica al “uno a uno”, e dei sui limiti nel contesto di disturbi sociali, come la dipendenza, malattie ambientali e violenza nel mondo delle gang. La guarigione nel contesto terapeutico viene percepita come una esperienza “interiore”. Nel dare importanza all'esperienza soggettiva del cliente si rafforza il suo individualismo e isolamento. Questo conduce a una passività culturale invece di un attivismo sociale e politico. James Hillman suggerisce che l'io dovrebbe essere ridefinito per farlo diventare più inclusivo, che l'io dovrebbe essere visto come una interiorizzazione della comunità.
Ambientalisti critici stanno argomentando per una prospettiva terapeutica che veda la persona e il pianeta come parte di un unico continuum. Per loro, un trattamento riuscito dovrebbe includere i bisogni della vita nel suo insieme. Sono convinti che la sofferenza dell'ecosistema si esprime attraverso la nostra angoscia emotiva e spirituale. Li preoccupa che questo travaglio non possa essere efficacemente compreso da una psicologia che riduce questo sentire a una patologia individuale.


A la base di questa inquietudine diffusa sentiamo essenzialmente il riconoscimento che in questo momento, se vogliamo guarire, abbiamo bisogno di modelli comunitari. Il che ci rimanda alla domanda di Rodney King. Viviamo nell'incertezza e urgenza che essa presuppone. Il miglior modo di rispondere è di avere il coraggio di rimanere con la domanda, appoggiandoci su di essa, finché come ci dice Rilke, potremo “vivere la risposta”.

La domanda di Rodney King ci invita a lottare per arrivare a capire profondamente le dinamiche psicologiche alla base delle tensioni e dei conflitti culturali che ci minacciano. Coinvolgerci con questa domanda potrà anche portarci a una nuova sensibilità psichospirituale che emerge e si sveglia attraverso l'esperienza di Comunitas. Rendendoci conto che il benessere individuale è vincolato inestricabilmente al benessere del gruppo scopriamo che la pratica della comunità è una disciplina spirituale.
Victor Turner descrisse il vincolo sociale nato dalla comunitas come un “intenso sentimento del senso di umanità” . Praticare la comunità vuol dire coltivare le condizioni che rendono reale l'esperienza del senso di umanità. Praticando la comunità stiamo investendo la nostra vita e la nostra speranza in uno sforzo reciproco per assicurare che noi e le generazioni future possiamo “trovare il modo di andare tutti d'accordo”.

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